25 marzo 2014

Rerum vulgarium fragmenta

Un espatriato come me, non potendo avere internet sempre sul telefono, quando è in giro è sempre a caccia di reti wifi, e fa uno strano effetto scorrere la lista di quelle memorizzate sul telefono. Ogni rete è la traccia tangibile di un luogo, un momento. Un ricordo.

"SLCairport", dal viaggio nello Utah. Innumerevoli "attwifi" di Starbucks sparsi per il New England, e i "DDguest" di quando mi trascinavano a forza in un qualche Dunkin' Donuts. "MIT", uno scorcio della breve vita in confraternita; "Emerson GUEST", "BUguest", "BerkleeWireless", un lampo di tutti i college visitati. Il wifi di casa a New London, e quello della Opera House di Newport, dove ho ricevuto il mio battesimo come tecnico luci (memorabile per me, forse un po' meno per gli attori). La rete del Logan di Boston, che ho usato per rassicurare i miei appena atterrato.

E i ricordi si affollano, si intersecano davanti agli occhi. Incredibile come poco più di un mese mi abbia lasciato così tanto.

20 marzo 2014

Interstate 93

Sono su un coach, partito da Boston da circa mezz'ora in direzione New London, dove starò da un amico per un paio di giorni prima di tornare a scuola. Ho le cuffie nelle orecchie e On the Road di Kerouac aperto in grembo. Il mio vicino - uno studente in jeans e camicia, che probabilmente sta andando a visitare la sua famiglia - dorme, con la testa reclinata verso il corridoio; il resto del bus fa altrettanto, con l'eccezione del ticchettio della tastiera di un laptop.

Sono perso nel libro, ma a un certo punto qualcosa mi fa alzare lo sguardo, verso il finestrino. La Highway si srotola di fianco a me, le strisce gialli lampeggiano alternandosi al cemento cotto dal sole, i cartelli verdebianchi mi corrono incontro e poi scompaiono veloci come sono arrivati. La campagna scorre uniforme, brulla e punteggiata di sempreverdi, semicoperta di neve e cespugli secchi.

E all'improvviso arriva. Una consapevolezza, un nonsochè di incredibilmente potente e dolce al tempo stesso. Colpa dei film, forse, dei vari Kerouac e London e Guthrie e Krakauer, dei sogni che si acquattano in qualche anfratto dell'inconscio; sono solo, in un autobus in mezzo al New England, a migliaia di chilometri da casa. Assaporo la sensazione per un po' prima di darle un nome, senso di libertà. Non c'è spazio per la nostalgia in quello che provo, c'è gioia pura, progetti e sogni che si mescolano per diventare un tiepido tutt'uno che mi stringe lo stomaco. Voglia di fare, di andare, di inseguire quell'indistinto futuro all'orizzonte, di aggredire il mondo, metterlo sottosopra e scoprire cosa si nasconde. Infinite possibilità, opportunità, vite che mi si diramano davanti; e la consapevolezza che sono io il conducente, io l'artefice, io quello che può osare. E gratitudine, per l'incredibile fortuna che ho.

America... Forse inizio a capirti meglio.

18 marzo 2014

Husky Nation! (Breve storia di una prima impressione)

È tempo di dedicare due righe al campus. Si trova nel ridente paesello di New Hampton, New Hampshire; in effetti è più appropriato dire che costituisce il ridente paesello di New Hampton (NH) perché, obiettivamente, non c'è molto altro oltre al campus, un paio di case private, due distributori e un Dunkin' Donuts, immancabile in ogni sconosciuta località statunitense che si rispetti. Anzi, parlando di sconosciute località: notata l'assoluta mancanza di originalità dei nomi? Girando per le strade degli US minori (e a volte anche maggiori) sembra di essere sballottati da una parte all'altra del Vecchio Continente: Florence, Berlin, Vienna, Syracuse, Athens, Paris, Rome, perfino qualche Nazareth e Betlehem. Per non parlare delle ripetizioni: lo sapevate che quasi tutti gli stati hanno almeno uno Springfield?

Okay, forse sono fuori strada. Il campus. È veramente un posto magnifico: immerso nelle colline innevate (per ora) del New Hampshire, nella regione dei laghi (uno più bello dell'altro), con una vegetazione da far invidia alla Foresta Nera. In autunno dà il meglio di sé: le foglie che imbruniscono contrastano allegramente i sempreverdi sparsi con perfezione geometrica, formando dei giochi di colore stupendi. Gli edifici, più o meno antichi e più o meno ristrutturati (e tutti funzionanti perfettamente, con forse l'unica eccezione del mio caro Ebbels) sono bassi e imponenti, di sapore vittoriano con un retrogusto di candida rusticità. E la cosa migliore è che sia gli studenti, sia i docenti sono in sintonia col clima: si respira un'aria di gioviale rilassatezza e operosità, non in senso milanese, tutto frettoloso e nervoso, ma in senso americano, di determinazione. È una delle primissime cose che ho imparato ad apprezzare qui: non importa la posizione, il lavoro, i titoli, se sei appassionato e motivato difficilmente qualcuno ti sbarrerà il passo; ogni forma di lavoro, ogni strano hobby, ogni attività è perseguibile e accettata, basta essere committed. E forse è qualcosa che dovremmo imparare anche noi, conservatori e attaccati alle differenze: non dico che negli US non ci siano, però fanno di tutto per appianarle. Questa way of life si nota anche nelle "piccole" cose come il rapporto docente-studente: rilassato! Non è raro che un professore fermi un suo alunno per i corridoi, chiedendogli com'è andata la partita di lacrosse di ieri sera, e fermandosi a scherzare insieme a lui su una disastrosa verifica di qualche tempo fa. I docenti diventano quasi degli zii, dei fratelli maggiori, che per caso sono anche i tuoi insegnanti di storia, o coach di hockey. Già, altra particolarità: ogni docente in genere ricopre almeno tre ruoli diversi, a seconda delle necessità, ora guidatore, ora allenatore, ora house parent, ora professore. Qualcuno ha anche una famiglia con bambini in campus. E fanno tutto con la stessa intensa energia, un mezzo sorriso sulle labbra mentre camminano la mattina verso la mensa.

Certo, non tutto è rose e fiori. Le boarding school sono universalmente note per essere anche un ricettacolo di figli che sono un peso per i propri genitori, e i suddetti figli generalmente si riconoscono a colpo d'occhio: ostentano indifferenza, camminano molleggiando, arrivano in ritardo e bofonchiano qualcosa all'indirizzo del professore, si stravaccano noncuranti sulle sedie in classe (suona familiare?), videogiocano spudoratamente col PC durante la lezione. Sono quelli che "io neanche ci volevo venire qui", "questo posto è noiosissimo, non succede mai niente", "andiamo a fumare di nascosto"; idea non troppo furba, visto che c'è tolleranza zero riguardo all'alcol, al fumo e alle droghe, al punto che ti buttano fuori per un accendino. Circa una settimana dopo il mio arrivo, un ragazzo del mio dormitorio ha levato le tende; aveva da tempo la reputazione di essere un tipo tutto canne e trasgressione, ed è stato espulso per il possesso di una pistola a pallini. Sì, di quelle ad aria compressa. Sarà anche stata innocua, ma penso che servisse un pretesto; del resto prima o poi doveva succedere, ha commentato un altro mio dorm mate, la pistola era solo l'ultima di una serie di infrazioni decisamente più gravi, ma non colte in flagrante. Comunque il ragazzo in questione apparteneva alla genia dei rampolli recalcitranti: figlio di un magnate orientale, con più soldi che buonsenso, spedito dall'altra parte del mondo nella speranza di un cambiamento. Peccato che in genere si ottenga l'effetto opposto.

Facciamo che rimando l'argomento illegalità/proibizionismo, che merita un approfondimento!

La scuola si propone davvero come home away from home, per quelli che sanno apprezzarla e hanno fatto la scelta di venire qui. L'atmosfera è quella di una grande famiglia, docenti compresi; un terzo dei ragazzi sono internazionali, ma non per questo si formano gruppetti distinti, c'è una piacevole mescolanza di ragazzi da tutto il mondo accomunati dallo school spirit; qualcosa che in Italia neanche ci sogniamo. Davvero, qui le cose le prendono sul serio! Se può sembrare melenso, posso assicurare che non lo è: si diventa davvero parte della Husky Nation, e la fraternità si trova ovunque. È difficile descrivere l'unità, la gioiosa forza che si percepisce anche solo assistendo a una partita della squadra principianti di hockey, per esempio, e la solidarietà quasi palpabile, e il supporto emotivo degli spettatori. Ragazzi che si sgolano, incitando i loro compagni. Quanti studenti italiani si fanno un viaggio di due ore, in uno scomodissimo scuolabus, solo per vedere la squadra di baseball della scuola in trasferta? Senza contare che neanche le abbiamo, noi, le squadre scolastiche; qui i confini tra le cosiddette "materie" e le "attività extrascolastiche" sono molto più labili, per non dire inesistenti. L'idea è che se una cosa è educativa, vale come materia. Punto. Conseguenze: le materie spaziano dalle scienze alla musica, dalla letteratura all'arte visiva, dalla storia al teatro; e gli sport pomeridiani sono parte integrante del programma scolastico. Il tutto servito da professori (/allenatori) intensamente appassionati, e capaci di trasmettere quello in cui credono agli studenti.

Sembra un'utopia, vero? E invece no, c'è qualcosa che mi atterrisce, mi annichilisce, mi fa rimpiangere amaramente la cara vecchia Italia: il cibo della mensa.

No, parliamone. Va bene che gli US sono un Paese relativamente giovane, va bene che c'è la mescolanza di culture; ma un qualsiasi europeo rabbrividisce davanti a una pasta al pollo (o, più frequentemente, spaghetti), condita con una "marinara sauce" che ricorda sospettosamente il ketchup più puro mai uscito da un McDonald's. Il tutto nello stesso piatto!, e accompagnato da un bel bicchiere di cioccolata al latte. Nessuna distinzione tra primo, secondo, contorno; i più sofisticati attaccano il dessert a metà del "secondo", per una qualche strana transizione di sapori, e sbocconcellano alternando. Giuro, ci ho provato, ho assaggiato, ma evidentemente ho un blocco mentale riguardo al cibo. Però ho trovato un'ancora di salvataggio, un faro che illumina le mie pause pranzo: i burritos (per chi non lo sapesse, involtini di carne, verdure e salse) che, per grazia del preside, sono preparati sul momento dallo studente stesso, che può scegliere cosa metterci dentro. Attribuisco a queste piccole delizie il fatto che io non sia (ancora) diventato anoressico o, più facilmente, obeso. Vada detto che la maggior parte degli studenti americani che vivono on campus stipano derrate alimentari da microonde in camera propria; il mio room mate, per esempio, evita accuratamente la mensa e tira avanti a ramen riscaldato, più qualche scatoletta. Praticamente la sua metà della stanza (e parte della mia) è occupata da scatole di Gatorade, Ramen Bombs e altri generi confezionati che non riesco a identificare. Infine i più fortunati, forse, sono i day student, ovvero gli studenti che non vivono on campus e hanno una confortevole casetta a cui ritornare per i pasti. Dico forse perché, conoscendo la cucina americana casalinga, non si è mai sicuri delle abilità culinarie di chi è ai fornelli; perché può darsi, per esempio, che anche un'amorevole madre non si faccia troppi scrupoli a riscaldare al microonde ogni singolo pasto. Non è raro come potreste pensare. Onestamente, tra tutte, non so quale sia la soluzione migliore...

E su questa cupa nota chiudo il post. Next on!

14 marzo 2014

Caffè e una nuova vita

11 febbraio 2014

Atterro, stanco morto. Aspetto mezz'ora al ritiro bagagli oversized del Logan per la mia chitarra, per poi scoprire che era sul nastro con le altre valigie. Sentendomi un po' rimbecillito, passo gli ultimi controlli (ultimi di una lunga serie... al controllo passaporti mi sembra di essere schedato come un criminale) e trovo un tipo burbero, barba bianca e stivaloni, con un cartello col mio nome. Aspetto insieme a lui un'altra oretta almeno per altri due internationals che non si degnano di atterrare, e ho il piacere di degustare il mio primo caffè americano full-size, pensando di averne davvero bisogno (un errore che, giuro, non ripeterò. Italiani, qualsiasi bevanda ordinate negli US, chiedetela small e non stupitevi se comunque il bicchiere è abbastanza grande da contenere un pieno di benzina). La neve fiocca dalle vetrate dell'aeroporto, risaltando contro il nero della notte inquinato dal giallastro dei lampioni.

Non appena si radunano tutti, saliamo a bordo di uno scuolabus (come quelli dei film!), tutto serigrafato con i colori della scuola, e chiacchieriamo del più e del meno per un'ora e quarantacinque minuti esatti, il tempo per arrivare a New Hampton da Boston. Sbarco verso le 11, buio pesto e freddo da non crederci; ormai vedo leggermente doppio dal sonno. L'autista mi consegna solennemente una chiave e mi lascia davanti a una casetta bianca, immersa nella neve: Ebbels House (per ora non descriverò Ebbels, penso che meriti un post tutto suo); entro, mi presento agli house parents, e faccio in tempo a scambiare due parole col mio nuovo room mate prima di crollare sul letto a castello.

12 febbraio

In barba al jetlag mi sveglio alle 8 la mattina dopo, il sole che filtra dalle tendine. Ci metto un po' a capire dove sono, il tempo di una doccia e di infilarmi nei vestiti; poi un dorm mate ha pietà della mia espressione sperduta e mi guida verso la direzione. Qui comincia il tour: nel giro di tre ore visito tutto il campus, faccio colazione e pranzo, vengo inserito nel database, messo online e provvisto di un iPad nuovo fiammante, istruito sull'uso delle tecnologie on campus, presentato a metà dei docenti (senza ricordare un singolo nome), e preparato in ogni modo possibile per iniziare il mio semestre. Da bravo italiano scelgo le materie d'obbligo, ma non resisto alla tentazione di occupare due dei miei sette blocks (ovvero classi) con, rispettivamente, recitazione e musica. Dopotutto, sono qui anche per questo! Poi mi indirizzano in infermeria dove mi spiegano pazientemente che non posso tenere medicine in camera, per rischio di furti tra gli studenti... che ci crediate o no, a qualcuno nel corso degli anni è venuto in mente di prendere delle medicine di un suo compagno di stanza, con l'intenzione di divertirsi un po'. Provo comunque a obiettare che è difficile sballarsi con le pillole per la prostata, ma non vogliono sentire ragioni, quindi torno in camera, nascondo gli antibiotici d'emergenza in fondo al cassetto meno accessibile e porto all'infermiera le medicine che ho denunciato. Ecco, questa si è poi rivelata una delle migliori idee che abbia mai avuto, perché un paio di giorni dopo mi hanno raccontato una storia grottesca di uno studente con 40 di febbre accusato di fingere e rispedito in classe. Bene, scongiurato il rischio di combustione spontanea. Moving on!

Verso l'una sono di nuovo in direzione. Mi chiedono come sto, se mi piace la scuola, se mi sto ambientando (dopo quattro ore?!), se ho bisogno di qualcosa; sto bene, solo un pochino cotto dal fuso, la scuola è stupenda, l'ambiente mi piace un sacco, dovrei essere a posto, dico; al che, mi mettono in braccio una cassa di cose utili (come un albero da scarpe) e mi rispediscono in dorm col consiglio di riposare un po'. Riesco a figurarmi come dovevo sembrare, sdraiato sul divano della sala comune: una specie di profugo, sguardo allucinato (prima di addormentarmi) e bavetta alla bocca come minimo, però ho avuto il tempo di metabolizzare il cataclisma di novità che mi si è appena presentato davanti.

Che dire?, la prima impressione che ho è che mi adatterò alla svelta. Fa tutto parte dell'esperienza: svegliarsi in un posto nuovo, senza conoscere nessuno, i ragazzi che passando ti guardano un po' sorpresi; e tu rispondi con un sorriso. Forse è troppo presto, ma comincio a pregustare la vita un po' bucolica che mi è sembrato di percepire qui intorno, i giorni regolari scanditi dalle lezioni, i pasti, le attività pomeridiane, lo svago dopo il tutto. Non si respira monotonia, ma tranquillità.

E mi addormento serenamente, pensando all'indomani.


In tutta onestà questa l'ho scattata la sera del secondo giorno, però è bellina, no?



11 marzo 2014

Introduzione post eventum

Eccomi qui, naturalizzato americano da un mesetto ormai, e col bisogno di mettere qualcosa per iscritto. Bisogno di una catarsi? Non saprei, non ne sento proprio la necessità... o forse sì, ma probabilmente è passeggera. Ad ogni modo mi piace l'idea di provare a tenere un blog, postare storie, impressioni, pensieri e parole. Anzi, avrei dovuto cominciare prima; e penso che la prima serie di post sarà (o almeno proverà a essere) una sorta di ammenda per il ritardo. E dopo questa incasinata digressione, posso anche cominciare!

Vediamo...